Il bruciaprofumi è identificabile in un “Qilin”, un animale fantastico forgiato durante la Dinastia Ming (1368-1644). Risultano evidenti le molteplici influenze dagli antichi vasi, come il vaso Kuang, una salsiera chiusa da un coperchio a forma di collo e testa di bue, caratterizzato da una cerniera disposta sul lato opposto del collo; presente nel nostro esemplare sul lato anteriore. Altra notevole somiglianza si ritrova con il vaso rituale Tsun, un vaso zoomorfico che assume molteplici forme a seconda dell’animale che riproduce. Infine è visibile il richiamo al mostro She, terribile dea-demone venerata in Cina. Presenta una testa di leone con collo completamente inanellato da una fluente criniera, sul cui corpo compaiono nuvole stilizzate che rivelano la natura superiore di questo animale volante, che al di sotto delle possenti zampe unghiute afferra un serpente. Questi animali favolosi volavano all’interno delle tombe per dissuadere lo spirito del male ad uscire dal corpo del defunto e divennero parte integrante dei corredi funerari, proprio con la funzione di guardiani.

Scarpe con tacco a “zoccolo di cavallo” (mati). Le scarpe in raso di seta viola sono completamente ricamate con seta policroma. Il ricamo su ogni lato raffigura alcune simpatiche scenette. In sequenza abbiamo: un cervo e una scimmia, un pescatore intento a prendere un pesce con la lenza, un grosso fiore di loto e un animale (forse una civetta) ma dal colore rosa e rosso. La scarpetta è fornita di rialzo ligneo, foderato con tela incollata, terminante a tacco posto però al centro della suola. Le scarpine dalle suole sopraelevate rappresentano una tradizione di abbigliamento diversa da quella cinese. Infatti, tra le donne mancesi non esisteva la pratica della fasciatura dei piedi (guojiao), mentre venivano usate queste particolari calzature femminili caratterizzate da una scarpa scollata montata su un alto zoccolo in legno, erano anche chiamate “qixie”, “scarpe delle bandiere”, dal nome delle divisioni politiche-amministrative del territorio mancese dei Qing.

La maschera Kwame è impiegata durante i riti funebri dell’etnia Kwame, che vive nella zona a nord-est dell’area dei Lega in Congo. La maschera di carattere antropomorfo è ricavata da una lunga asse di legno, leggermente incurvata alle estremità laterali, sulla cui sommità è presente una sorta di corona realizzata attraverso l’impiego di piume di gallinaceo. Si contraddistingue per una fronte assai spaziosa e per un’arcata sopracciliare ad ampio arco che, unendosi al ponte del naso, crea una forma a cuore resa ancora più visibile dal bianco caolino con cui è dipinta. Questa forma a cuore è la tipica conformazione del volto nella tradizione scultorea Lega, una cultura che ha contaminato lo stile artistico delle etnie contigue.

Rotolo verticale, attribuito al pittore Huang Quan (900-965) secondo l’impiego della tecnica china nera su carta. È anche denominato “il Canto Concorde”. Nel riquadro centrale dell'opera possiamo ammirare un acquerello su tela, in cui sono rappresentate tre oche, uno stagno e delle piante acquatiche. Al di sopra del quadro, vi è una poesia attribuita all’imperatore Shao Xing (1127-1162) che celebra la fecondità della natura. Probabilmente realizzato secondo lo stile della scuola di Huang Quan, databile al 1400-1500. Completano il rotolo altre tre iscrizioni risalenti al 16° secolo. 150 x 50 cm., nel Museo dal 1902.

Calco da stele di Xian, Bosco delle Lapidi, del 1734. “Effigie del supremo Maestro” indica il titolo in alto, in stile sigillo (xiaozhuan). Disegno eseguito da Yun Li (Principe Guo) della Dinastia Qing. Ritratto del filosofo Confucio, le mani tenute infilate nelle lunghe maniche del vestito, ornato attorno al collo da una fascia bianca, con folti baffi e barba. Tipico cappello del letterato cinese, con chiodo che lo trapassa da parte a parte. 192 x 160 cm.

Il dipinto ben riprende quelle che sono le caratteristiche del “paesaggio romantico”, secondo cui la rappresentazione delle cose, se ben fatta, conteneva l’essenza stessa delle cose rappresentate. Il paesaggio a china nera e tempera a pennello su carta, foderata su carta, imita quelli della scuola Zhe Pai. Eseguito da Cheng Gu, nome d'arte Zhaoguang, pittore dell'Accademia Imperiale durante il regno di Kangxi (1662-1722), presso il “palazzo della fragranza meridionale” all'interno della Città Proibita. Imitò i pittori di epoca Song, e raggiunse i loro stessi risultati. Fu abile nel genere del paesaggio e nella pittura di personaggi e nel genere fiori ed uccelli.

Vaso di porcellana, biscotto con monocromo verde. Il biscotto è l'oggetto dopo la prima cottura, che può quindi assorbire ancora liquidi e fissare vetrine e smalti nelle cotture successive che danno origine alla ceramica invetriata o smaltata. Questo vaso di Ø cm. 20 risale all'epoca dell'Imperatore Kangxi (1662 –1722), della dinastia Qing.

Il pangolino gigante detto Ikaga, è l'animale sacro per eccellenza per i Lega. I suoi peli compatti si raggruppano in scaglie cornee, che ricoprendosi l’una con l’altra proteggono tutto il corpo. Questa particolarità ne fa il simbolo dell’unione fra i Lega, poiché ogni membro del villaggio ricopre un ruolo ben preciso che garantisce la protezione per l’intero clan. Il pangolino per la sacralità della sua stessa natura non può essere cacciato. Il nostro manufatto rappresenta un animale a quattro zampe, arcuato, il cui corpo va assottigliandosi verso la coda per finire appuntito, arricchito da incisioni ortogonali che formano placche in rilievo.

La maschera 'muminia' (l'indispensabile), o 'kekoni' (bella), presenta un volto coperto di patina nera, salvo gli occhi imbiancati di caolino. Caratteristica è la banda bianca con punti neri scolpita sulla fronte e sulle guance. La bocca sembra gridare gli ammonimenti degli antenati. Questo tipo di maschera è dichiarato rarissimo già nel 1952 dal Biebuyck, acuto studioso della cultura Lega. Questo esemplare viene da un villaggio dei Baliga (zona di Shabunda). Le rare maschere muminia appartengono ad una larga comunità rituale che ingloba diversi villaggi, nel cui nome vengono conservate in un posto segreto, dal membro kindi più anziano, nella sacca collettiva. Il significato essenziale di questo tipo di maschera è sociale, simbolo di coesione tra gruppi disparati. Nel rito di introduzione di un candidato al 'bwame' si dice: 'Coraggio, piccolo amico! Ma dove arriverai apri bene gli occhi prima di parlare'. Si insegna così la prudenza, massima virtù raccomandata ai 'bami'.

Una delle statue più caratterizzanti del Museo è il grande Buddha dorato, che arricchisce la sala dedicata alla cultura orientale. Si tratta infatti di una delle rappresentazioni del Buddha Amitabha, letteralmente “colui che possiede la luce senza limiti, colui che è splendore infinito”. La figura appare seduta a gambe incrociate su un piedistallo a doppio fiore di loto, le mani, sovrapposte, poggiano sull’inguine con i palmi rivolti verso l’alto, il capo è impreziosito da una corona polilobata. Tutti questi elementi sono laccati color oro. Il Buddha Amithaba appartiene al mondo celeste della tradizione Mahayana del Buddismo e, secondo le Scritture, possiede meriti innumerevoli, derivanti dalle vite passate, in qualità di bodhisattva, ossia di colui che ha rinunciato alla propria felicità per aiutare gli altri a salvarsi. Distinguere inoltre il Buddha celeste Amitabha da quello terrestre, Sakyamuni, appare abbastanza complesso, in virtù del fatto che per entrambi vengono impiegati gli stessi elementi figurativi.

La giara è uno dei manufatti più antichi del Museo, risalente alla Cultura Majiayao - Banshan del 3° millennio a.C. (Neolitico). Veniva impiegata come vaso per la raccolta delle granaglie. Proviene da scavi effettuati dall'archeologo svedese Dr. J. Andersson nel 1923 presso la zona di Gansu, nella Cina nord-occidentale. Caratterizzata da una forma sferica a base circolare piatta con due manici intorno al ventre, propria delle giare, venne realizzata tramite l’impiego di argilla finissima di colore chiaro, arricchita da una decorazione del mantello a colore nero, nella parte superiore del ventre. Presenta elementi spiroidali capovolti, rispetto all’ordine delle ore dell’orologio, e incorniciati nella parte superiore, da due importanti righe, e nella parte inferiore da una linea orizzontale e una linea a festoni.

Giara per sostanze medicinali. Ecco quanto ne scrive il Prof. Ye Zhemin sulla rivista "Palace Museum Journal" n° 3, 2000, Pechino: “Giara con disegno di oca selvatica tra le nuvole in nero e marrone su fondo bianco del tipo della fornace Cizhou, dinastia Ming. La fornace Cizhou è rinomata per le sue ceramiche popolari e vanta una storia ininterrotta di imitazioni da parte di molte fornaci. In questa giara, con pennellate semplici ma piene di energia è stata dipinta un'oca selvatica tra le nubi. Assomiglia a una composizione di fiori, impostata in maniera tanto originale che, a confronto con le decorazioni “fiori e uccelli” delle dinastie successive, spicca per la sua vivacità e naturalezza.”

Una delle statue più caratterizzanti del Museo è il grande Buddha dorato, che arricchisce la sala dedicata alla cultura orientale. Si tratta infatti di una delle rappresentazioni del Buddha Amitabha, letteralmente “colui che possiede la luce senza limiti, colui che è splendore infinito”. La figura appare seduta a gambe incrociate su un piedistallo a doppio fiore di loto, le mani, sovrapposte, poggiano sull’inguine con i palmi rivolti verso l’alto, il capo è impreziosito da una corona polilobata. Tutti questi elementi sono laccati color oro. Il Buddha Amithaba appartiene al mondo celeste della tradizione Mahayana del Buddismo e, secondo le Scritture, possiede meriti innumerevoli, derivanti dalle vite passate, in qualità di bodhisattva, ossia di colui che ha rinunciato alla propria felicità per aiutare gli altri a salvarsi. Distinguere inoltre il Buddha celeste Amitabha da quello terrestre, Sakyamuni, appare abbastanza complesso, in virtù del fatto che per entrambi vengono impiegati gli stessi elementi figurativi.

Grande piatto in celadon con decorazione sottocoperta di dragone e fenice che si inseguono lungo il bordo interno. Probabilmente, viste le grandi dimensioni, venne prodotto in una fornace del Vietnam (all’epoca territorio cinese). Dinastia Yuan (1271- 1368), celadon Ø cm 65.

La scultura rappresenta il Guan Di, una divinità taoista maschile. Il suo nome originale era Guan Yu, uno dei due generali rimasti fedeli fino alla fine al suo imperatore Liu Bei, a seguito della usurpazione del Regno che subì ad opera di Cao Cao (Ts'ao ts'ao) nel 155-220 d.C. Ricevette in seguito il titolo onorifico di Guan Gong. Questo generale morì nel 219, combattendo valorosamente. Per il coraggio e la lealtà dimostrati, ascese tra le divinità del pantheon taoista e venne proclamato “dio della guerra” col nome di Guan Di. Personaggio di spicco del romanzo storico “Tre regni”, ancora oggi popolarissimo e conosciuto da tutti i Cinesi. Nelle raffigurazioni è normalmente vestito da generale, in sella al suo cavallo e con il volto rosso (colore della lealtà).

“Guanyin” in porcellana, in Giappone (Kannon) e Cina (GuanYin) ha assunto carattere femminile. Le raffigurazioni sono molte e le più frequenti lo rappresentano con il fiore di loto, oppure le mani nella posa della carità, con una ciotola in mano, con una figura di Buddha sul diadema, come discepolo a fianco di Buddha, con undici teste, con molte mani, come protettore e datore di bambini.

I Kayapò possiedono un complesso sistema di celebrazioni; uno dei rituali di passaggio più emblematici è il rito di iniziazione “me-î-tuk” o dei “portatori del bracciale nero”, che denota il passaggio dei ragazzi dalla pubertà alla giovinezza. Questi ornamenti, vengono indossati dai bambini sia durante la loro presentazione alla comunità, sia durante il rituale di nominazione, che permette loro di ricevere il nome speciale e bello che li accompagnerà per tutta la vita. I bracciali presentano decorazioni a disegno geometrico in fibre di corteccia. Da essi pendono grappoli di semi legnosi, dipinti di urucum, tenuti insieme da pendenti di perline di vetro e di piume di pappagallo.

Il copricapo “Rori-rori” dei Kayapò, realizzato con piume di vari uccelli, è fissato sopra una maglia a rete di fibre vegetali. È un ornamento policromo tipicamente maschile portato sulla testa del danzatore durante le feste e trasmette l'idea di leggerezza e libertà.

Il disco labiale è uno strumento che apporta alterazioni al corpo. Pochi giorni dopo la nascita dei soli figli maschi, il padre procede alla perforazione del labbro inferiore del neonato, inserendovi un piccolo ornamento fatto di perline di vetro o di ceramica, che andrà progressivamente a sostituire con altri, di sempre maggior grandezza. Questa tradizione rimanda all’importanza dell’arte oratoria e dell’autorità, della capacità nel parlare, che per i Kayapò costituisce una delle attività sociali più importanti.

L’arte delle piume accompagna i Kayapò in tutto l’arco della loro vita e un manufatto particolarmente significativo è il “Grande Diadema Krôkrôk-tire”. Indossato solo nelle grandi celebrazioni è confezionato esclusivamente con le piume caudali di due specie di pappagallo: l’ara macao rosso e l’ara macao blu-giallo. Alle estremità delle punte sono legate piume sotto-alari bianche di airone o di aquila. Il nome Krôkrôk, parola onomatopeica, indica lo stormire delle foglie agitate dal vento, e il suo ondeggiare durante le danze, ricorda l’immagine di una persona che vola.

Collare indossato durante la cerimonia nuziale, di color ottone, diviso in due semicerchi, la cui faccia superiore rappresenta due draghi (simbolo di fertilità maschile). Nella parte anteriore, due draghi azzannano una stessa sfera; lungo il corpo del drago si alternano personaggi in piedi su nuvole e aperture a forma di cuore (sede dei sentimenti). Al termine del rito matrimoniale veniva effettuata la danza del drago quale augurio di fecondità.

Si tratta di un utensile impiegato per versare da bere, che aveva una sua ben precisa funzione nell'ambito dei quotidiani riti ancestrali, durante i quali si versava vino di miglio sul simulacro dell'antenato evocato, e si brindava in suo onore. Nel Museo dal 1929; Provenienza Luoyang, Henan.

Eleganti spilloni dai decori preziosi abbellivano le acconciature, diffuse sin dai tempi antichi, delle donne cinesi. Le signore dell’aristocrazia erano solite sostituire gli spilloni al volgere delle stagioni: quelli di giada si usavano in primavera ed estate, mentre i fermagli d’oro erano adatti alla stagione autunnale e invernale. Sono di argento, perle, ottone, corallo, turchese, piume di martin pescatore, e smalti.

Giara per sostanze medicinali. Ecco quanto ne scrive il Prof. Ye Zhemin sulla rivista "Palace Museum Journal" n° 3, 2000, Pechino: “Giara con disegno di oca selvatica tra le nuvole in nero e marrone su fondo bianco del tipo della fornace Cizhou, dinastia Ming. La fornace Cizhou è rinomata per le sue ceramiche popolari e vanta una storia ininterrotta di imitazioni da parte di molte fornaci. In questa giara, con pennellate semplici ma piene di energia è stata dipinta un'oca selvatica tra le nubi. Assomiglia a una composizione di fiori, impostata in maniera tanto originale che, a confronto con le decorazioni “fiori e uccelli” delle dinastie successive, spicca per la sua vivacità e naturalezza.”

Si tratta di un vaso rituale detto “Yi”, risalente al periodo medio della dinastia Zhou (1045- 256 a.C.), una specie di salsiera senza coperchio. La sua fisionomia allude ad un animale, talvolta un drago, una tigre, nel nostro caso un bove. La tazza ovoidale poggia su tre piedi simulanti zampe bovine ed il muso richiama alla mente quello di un bovide. L’ansa da presa o coda dell’animale è rappresentata da un drago o un felino, in atto di balzare sulla groppa dell’animale e di morderlo. Rappresenta uno dei manufatti bronzei più significativi della nostra collezione.

Il Paravento è composto da 12 pannelli decorati su entrambi i lati che presentano nella parte inferiore l’ideogramma “shou” - lunga vita, iscritto al centro di un elemento circolare e sormontato da riserve rettangolari d’orate, che accolgono a loro volta, l’ideogramma “xi” - felicità. La decorazione da un lato è caratterizzata da 12 scene paesaggistiche dipinte su carta, e sul lato opposto da una lunga scritta in oro su fondo di raso di seta nero, che racconta le imprese di un certo Wu Wang Ming. Infatti questo splendido manufatto risale al 1844, e venne commissionato da un gruppo di funzionari, quale dono al collega Wu Wang Ming che lasciava l’ufficio per raggiunti limiti d’età. Oggetti come questo, esposti come sfondo per raduni formali, divennero di moda durante il regno di Kangxi (1662-1722).

Il Museo possiede una collezione di oltre 5.000 monete cinesi distinte in quattro raggruppamenti che si completano a vicenda ed il cui nome è dovuto ai raccoglitori od ordinatori: la collezione Bonardi Rossa di oltre 1400 pezzi; la collezione Bonardi Azzurra di oltre 600 pezzi; la collezione Rossi-Scalzi di oltre 1300 pezzi, ed infine la collezione Grazzi, di oltre 5000 pezzi. Tutta questa sterminata collezione venne messa insieme nel Henan e nello Shanxi in un periodo che va dal 1904 al 1942. Ed è, forse, vero quello che scriveva il Prof. Serafino Ricci a proposito della sola collezione Bonardi rossa, che ebbe modo di esaminare di persona: “Per la rarità, la varietà, la ricchezza dei pezzi più antichi di cui è composta, è una delle migliori collezioni esistenti”. In Museo è esposta solo la collezione Rossi-Scalzi, contenuta nell’elegante ed ingegnoso contenitore costruito in Cina, in legno dipinto a mano. E tra la montagna di monete cinesi, c'erano anche pezzi classificati come "amuleti", per tenere lontani spiriti e creature nocive e per augurare felicità, successo, carriera, ricchezza ecc...